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Tra tradizione e innovazione

Classi digitiali ed esperienze multisensoriali

Le risorse della scuola pubblica, negli ultimi 10 anni, sono state via via tagliate. Uno dei pochi ambiti – se non l’unico – che si è salvato da questa decurtazione, è stato quella della didattica digitale. Si pensi, per esempio, alla recentissima istituzione, da parte della dibattuta legge 107, della nuova figura dell’“animatore digitale” e del Programma Operativo Nazionale per la scuola, con un’ampia sezione dedicata al potenziamento della dotazione tecnologica.    

 

Il percorso di digitalizzazione delle scuole è incominciato qualche anno fa con la cosiddetta LIM (Lavagna Interattiva Multimediale) da far pervenire, in teoria, in tutte le scuole italiane. L’obiettivo ambizioso era quello di creare le cosiddette “classi digitali”. A fianco a ovvie motivazioni didattiche-metodologiche, ce ne sono alcune di stampo più economico: l’investimento finanziario iniziale dovrebbe, in teoria, essere ammortizzato dalla sostituzione del cartaceo con un apparato didattico basato unicamente sugli schermi e sulle tastiere.

 

In realtà come sottolinea Daniele Novara – tale risparmio non esiste: la velocità con cui le tecnologie digitali cambiano necessita di un continuo aggiornamento e adeguamento, in termini sia di strutture che di software.

 

Mettendo da parte gli aspetti economici, per me poco rilevanti, rimangono alcuni nodi aperti.

 

Come molti studiosi di pedagogia hanno sottolineato, l’apprendimento deve avvenire in un contesto altamente denso di significato; deve quindi essere situato (Lave e Wenger) e partire dall’esperienza concreta del bambino. L’apprendimento significativo mette in relazione le nuove informazioni con le conoscenze che il soggetto già possiede (Novak).

 

A partire da Dewey e Piaget, viene anche sottolineato come l’apprendimento efficace debba essere esperienziale: il processo di apprendimento si realizza, così, attraverso l'azione e la sperimentazione di situazioni, compiti, ruoli in cui il soggetto è attivo protagonista.

 

Per usare le parole di Confucio: “Se ascolto dimentico, se vedo ricordo, se faccio capisco”. 

 

La pedagogia della Montessori racchiude in sé e delinea perfettamente i paradigmi di una didattica del fare: apprendimento in contesti di esperienza diretta dove tutta la sensorialità viene sviluppata attraverso processi di libera scelta e di forte sviluppo delle creatività personali, partendo da problemi concreti.

 

Alla luce di queste considerazioni, siamo sicuri che la virtualizzazione crescente a cui si stanno in parte sottoponendo i bambini – tramite l’uso di tablet, Lim e quant’altro, fin dai primissimi anni di vita – risponda realmente ai loro bisogni educativi?

 

È interessante notare come i fondatori dei grandi sistemi di connessione digitale – l’ideatore di Google, l’inventore di Amazon, il creatore di Wikipedia – provengano proprio dalle scuole montessoriane, dove il primato è totalmente della sensorialità pura e semplice, del toccare, del vedere, del sentire, dell’esperienza diretta.

 

Sembra quasi, come sottolinea Novara, che “per arrivare ad essere dei geni creativi del nuovo mondo digitale bisogna aver trascorso l’infanzia fuori dal mondo digitale”.

 

Basta osservare qualsiasi bambino “nativo digitale”: spesso digitalmente abilissimo in un videogioco ma con capacità logico-deduttive (necessarie alla programmazione digitale) non altrettanto sviluppate.

 

Molte delle ricerche più recenti sottolineano come la sostituzione del digitale, a scapito delle più tradizionali modalità di apprendimento, non sia del tutto corretta.

 

Una serie di studi, sviluppati in Francia, Inghilterra e Stati Uniti, convergono sul fatto che la scrittura a mano permetta un coordinamento di motricità fine, con componenti neurofisiologiche assolutamente uniche, che la tastiera non è in grado di garantire. La scrittura con la penna, quindi, consente un apprendimento e uno sviluppo delle capacità migliori rispetto alla tastiera.

 

Altre ricerche mostrano come nei bambini di cinque anni i circuiti cerebrali dedicati alla lettura si attivano quando provano a scrivere lettere a mano, ma non quando premono i corrispondenti tasti su una tastiera.

 

Queste ricerche, quindi, sembrano convalidare le affermazioni della Montessori: in età infantile l’apprendimento è sempre connesso a esperienze tattili e sensoriali e ad operazioni concrete.

 

Tali argomentazioni, ovviamente, non ci devono far rigettare in toto la possibilità di una “scuola digitale” ma portarci a ben delineare quali siano le linee guida che devono orientare il processo di digitalizzazione: sostituzione del nozionismo contenutistico e mnemonico (ben vengano i libri digitali, quindi) a favore di una rinnovata funzione educativa della scuola come luogo di socializzazione, scambio, confronto, costruzione condivisa della conoscenza.

 

Proprio di socializzazione reale e quotidiana, i giovani hanno davvero bisogno. Che i social network non siano strumenti relazionali efficaci, dal punto di vista dell’acquisizione di competenze relazionali, ormai è chiaro a tutti. E molto più tempo si passa nelle relazioni virtuali, meno si impara a gestire le normali difficoltà relazionali e comunicative quotidiane.

 

Proprio qui, la scuola gioca un ruolo fondamentale: intervenire, ovviamente, sullo sviluppo dell’intelligenza cognitiva senza dimenticare l’intelligenza emotiva, altrettanto importante nella globale formazione dell’individuo.  

 

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