Superpedagogichespiralidoso

...pillole pedagogiche da mandar giù con un poco di zucchero...

 


#11

Quando il troppo stroppia

Perchè non dobbiamo presentare i quattro caratteri di scrittura contemporaneamente

Ebbene sì! Ci sono ancora dei docenti che propongono, fin dai primi giorni di scuola, tutti e quattro i caratteri di scrittura: stampato maiuscolo, stampato minuscolo (stampatello), corsivo maiuscolo e minuscolo.

 

Il bambino/a, in questo caso, deve imparare ad associare un suono (fonema) a diversi caratteri, nonché apprendere i movimenti necessari per riprodurre tutti quei segni con la matita, che hanno caratteristiche molto diverse tra loro. Il corsivo richiede di ruotare il polso, per esempio, quindi movimenti complessi: il riconoscimento delle singole lettere è più difficile.

 

Lo stampatello, invece, presenta lettere di forma identica ma invertite nello spazio (p/q, b/d): richiede, quindi, la capacità di discriminare oggetti diversamente orientati nello spazio e l’acquisizione del concetto di specularità, al fine di evitare confusioni. Il problema è che ancora a 6 anni, circa il 30% dei bambini/e è mal lateralizzato (anche se non necessariamente mostra delle difficoltà nella letto-scrittura).

 

Gli studio delle neuroscienze, inoltre, hanno rilevato come imparare a leggere non faccia parte del nostro equipaggiamento genetico (a differenza dell’imparare a parlare) ma richieda una vera e propria riorganizzazione dei circuiti neuronali di alcune aree del cervello responsabili – tra i vari aspetti – dell’attenzione, percezione, motricità. Il corretto avviamento della lettura prevede, quindi, un lavoro preliminare a livello percettivo e di orientamento spazio-temporale. Imparare a leggere è possibile se e quando il nostro sistema visivo possiede dei meccanismi per il riconoscimento delle forme invarianti: le lettere sono abbastanza vicine al repertorio di forme presente nel nostro cervello cosicché possiamo riferirle ai suoni (fonemi).

 

Gli studi di neuroimaging hanno mostrato, oltretutto, che si attivano due emisferi diversi nel momento in cui scriviamo in corsivo o leggiamo. Onde evitare conflitti, è auspicabile – almeno all’inizio – insegnare a leggere usando lo stampato maiuscolo e poi minuscolo.  

 

L’apprendimento della lettura è un processo formato da molti sottoprocessi integrati tra loro. L’inadeguatezza del metodo di insegnamento, del momento in cui viene proposta l’attività, nonché alcune caratteristiche specifiche del bambino (per. es immaturità cognitiva, mancanza di prerequisiti, predisposizione genetica), possono essere da ostacolo all’automatizzazione di questo compito.

 

Se le suddette argomentazioni non sono sufficienti per evitare di proporre i quattro caratteri contemporaneamente, ci vengono in soccorso le Linee guida per il diritto allo studio degli alunni/e con disturbi dell’apprendimento del 2011.

 

 

Per imparare la corrispondenza biunivoca tra segno e suono di un sistema alfabetico, più che un impegno cognitivo, sono richieste abilità quali la scomposizione e ricomposizione delle parole in suoni e il riconoscimento dei segni ad essi associati. Quindi, per imparare la lettura è importante avere buone capacità di riconoscimento visivo e di analisi di struttura della parola.”

 

“Scendendo nello specifico del metodo di insegnamento-apprendimento della lettoscrittura, è importante sottolineare che la letteratura scientifica più accreditata sconsiglia il metodo globale, essendo dimostrato che ritarda l’acquisizione di una adeguata fluenza e correttezza di lettura.”

 

"In ogni caso, qualunque metodo si adotti, sarebbe auspicabile iniziare con lo stampato maiuscolo, la forma di scrittura percettivamente più semplice, in quanto essa è articolata su una sola banda spaziale delimitata da due sole linee (scrittura bilineare): tutte le lettere hanno infatti la medesima altezza, iniziando dal rigo superiore e terminando in quello inferiore, mentre lo stampato minuscolo, oltre che il corsivo, sono forme di scrittura articolate su tre bande spaziali, in cui le linee di demarcazione dello spazio sono quattro (scrittura quadrilineare), […] e risultano pertanto percettivamente molto più complesse. Si dovrebbe poi evitare di presentare al bambino una medesima lettera espressa graficamente in più caratteri (stampato minuscolo, stampato maiuscolo, corsivo minuscolo, corsivo maiuscolo), ma è opportuno soffermarsi su una soltanto di queste modalità fino a che l'alunno non abbia acquisito una sicura e stabile rappresentazione mentale della forma di quella lettera. L'insegnante si dovrà soffermare per un tempo più lungo sui fonemi più complessi graficamente e dovrà dare indicazioni molto precise per la scrittura, verbalizzando al bambino come si tiene una corretta impugnatura della matita o della penna, dando indicazioni precise sul movimento che la mano deve compiere, sulla direzione da imprimere al gesto, sulle dimensioni delle lettere rispetto allo spazio del foglio o del supporto di scrittura (cartellone, lavagna). Si farà anche attenzione a che il bambino disegni le lettere partendo dall’alto.”

 

 

Queste indicazioni, allegate al decreto ministeriale del 12 luglio 2011, sono molto chiare: è scritto esplicitamente che non riguardano solo gli alunni/e con disturbi dell’apprendimento (anche perché la diagnosi si può effettuare soltanto alla fine della classe 2°) e che è importante effettuare un lavoro comune alla classe, fatta salva la didattica individualizzata rispondente ai bisogni specifici degli alunni.

 

 

Chiudo con una serie di domande: presentare i quattro caratteri  contemporaneamente, cosa offre ai bambini/e in più rispetto alla presentazione dilatata nel tempo degli stessi? Perché colleghi continuate con una didattica superata pur sapendo che potrebbe nuocere agli alunni/e più fragili? Dirigenti, perché non intervenite su questo aspetto? Genitori, perchè in questi casi non chiedete lumi ai docenti?

 

 

#10

Facciamo il punto sulla didattica a distanza!

In occasione della fine della scuola, ho chiesto ai miei alunni di compilare un questionario, una sorta di customer satisfaction sulla didattica a distanza. Oltre a ricavare informazioni inerenti strettamente gli apprendimenti (per me utili al fine di impostare il piano di lavoro da attuarsi a settembre), volevo sentire da loro che cosa fosse mancato di più rispetto al lavoro in classe, ma anche che cosa avessero apprezzato. Davvero è tutto da buttare? C’è qualche aspetto che possiamo salvare o che addirittura è piaciuto e che, quindi, potrei pensare di riproporlo il prossimo anno scolastico?

Ho anche chiesto come vorrebbero fosse organizzata la scuola a settembre e se ci fosse qualche aspetto che li preoccupa particolarmente.

Per finire, ho chiesto loro di fare come facevamo in classe: dare un voto al proprio impegno e fare l’appello emotivo, comunicando come si sentissero in quel momento.

 

Inutile dire che ai bambini è mancato il contatto con i compagni, il giocare assieme, ma anche quando la maestra spiegava un argomento e il poterle raccontare “le cose che mi succedono”.

“Il contatto fisico e visivo con le insegnanti e i compagni”; “vedersi di persona perché è più facile fare insieme le cose”; “i compagni, le maestre, le interrogazioni orali”. Chi, per non lasciare nessun dubbio, risponde che gli è mancato “tutto”, o “è mancata la scuola”.

Dalla scuola primaria in poi, il gruppo dei pari diventa un punto di riferimento fondamentale. Le abilità relazionali, le competenze emotive vanno allenate ed acquisite al pari di conoscenze e abilità cognitive. La scuola non è solo la sede dell’istruzione, ma contribuisce alla formazione globale del bambino che non può avvenire dietro ad uno schermo.

 

Cosa salvano i bambini di questo periodo di DAD? Anche in queste risposte, l’aspetto relazionale – sebbene diverso da quello a cui eravamo abituati – emerge in maniera preponderante: “la possibilità di interagire con le maestre nonostante tutto”; “ritrovarsi e chiacchierare” negli incontri on line e “le video lezioni nelle quali ascoltavo la maestra”.

Per fortuna, in alcuni bimbi, questo periodo difficile non ha intaccato la voglia di apprendere, per cui emerge “il continuo interesse nello studio delle materie”, l’apprezzamento della possibilità del “risentire le spiegazioni della maestra” e il riuscire ad apprendere: “nonostante fossi a casa, ho comunque imparato qualcosa di nuovo ma con meno pressione. Ho apprezzato che la maestra caricava compiti extra facoltativi per chi, come me, si annoiava un po’ e voleva fare di più”. La bellezza dei tempi più dilatati, il “fare i compiti quando volevo”, grazie alla decisione presa, in accordo coi genitori, di ridurre il carico di lavoro per non stressare i bambini e sovraccaricare le famiglie in un periodo di per sé già difficile.

C’è anche chi, purtroppo, ha risposto che della didattica a distanza non ha apprezzato “nulla” e qui rientrano quei bambini che abbiamo un po’ perso per strada, che in presenza sicuramente saremmo riuscite a stimolare, trainare, aiutate anche dalla forza del gruppo classe .

 

In merito a come dovrebbe essere organizzata la scuola a settembre, possiamo raggruppare le idee dei bambini in due categorie: chi tiene a mente le ristrettezze determinate dal COVID e chi, nostalgicamente, auspica un rientro in vecchio stile.

“A scuola ci dovrebbe essere un dispenser di disinfettante e i banchi devono essere schierati alla distanza di sicurezza, si dovrebbe fare il tampone ad ognuno di noi”; bisognerebbe adottare “le precauzioni antivirus”.

“Vorrei che tornasse tutto alla normalità”, tutto “come prima”, perché alla fine, la scuola “mi va bene come era prima del Covid 19”.

Si spera, ovviamente, che la realtà dei fatti starà nel mezzo: l’attenzione per la sicurezza e l’ igiene accompagnata dal rispetto delle necessità di socializzazione, relazione e contatto dei bambini. Abbiamo tre mesi di tempo per trovare le modalità e le risorse. Dobbiamo riuscirci.

 

Vorrei chiudere questo articolo citando due frasi che suonano come un augurio, un desiderio che tutti noi abbiamo per i nostri alunni e figli.

“Vorrei poter non usare la mascherina perché fa sudare. Vorrei andare a scuola solo la mattina in modo da poter andare agli allenamenti di pomeriggio. Siamo pochi in classe e vorrei poter giocare con i miei compagni senza problemi di distanza di sicurezza”.

“Vorrei poter tornare in classe senza mascherina così da poter sorridere alle maestre e ai miei compagni e riabbracciarli”.

#9

Dall'ottica dei disturbi all'ottica dei bisogni

L’espressione “alunni con bisogni educativi speciali” compare per la prima volta in Inghilterra, nel 1978, per abolire il termine handicap e per sottolineare la necessità che il sistema educativo del Regno Unito fosse modificato riconoscendo il bisogno di un rinnovamento anche in ambito pedagogico.

 

In Italia è Dario Ianes che concettualizza il Bisogno Educativo Speciale come una macro-categoria che comprende tutte le possibili difficoltà educative e dell'apprendimento degli alunni e in particolare:

 

"Qualsiasi difficoltà evolutiva, in ambito educativo e apprenditivo, espressa in un funzionamento (nei vari ambiti della salute secondo il modello ICF dell’Organizzazione mondiale della sanità) problematico anche per il soggetto, in termini di danno, ostacolo o stigma sociale, indipendentemente dall’eziologia, e che necessita di educazione speciale individualizzata"[1].

 

Ianes sostiene che il concetto di speciale normalità e i criteri di classificazione legati all’ICF, che stanno alla base della macro-categoria dei BES, possono essere utili proprio agli insegnanti per fare una fotografia delle diverse difficoltà presenti nella classe e per leggere la complessità dei reali bisogni che si presentano. La scuola, in effetti, dovrebbe saper individuare e affrontare tutte le situazioni di difficoltà, anche quelle non classificate ufficialmente e/o diagnosticate.

 

A tal fine, la Circolare Ministeriale n. 8 , prot. 561, del 6 marzo 2013 sottolinea come ogni alunno, con continuità o per determinati periodi, può manifestare bisogni educativi speciali (o per motivi fisici, biologici, fisiologici o anche psicologici, sociali) rispetto ai quali è necessario che le scuole offrano adeguata e personalizzata risposta.

 

Tali alunni/e possono usufruire degli strumenti compensativi e delle misure dispensative previste dalla Legge 170/2010.

 

La sopracitata Circolare evita la netta distinzione tra chi funziona - ed è "in norma" -  e chi non funziona, segnalato da una diagnosi.

 

Quest'ottica, a mio parere, può permetterci addirittura di andare oltre il concetto stesso di Bisogno Educativo Speciale. Nel momento in cui ognuno di noi è portatore di alcune caratteristiche, e quindi necessità che per forza di cose sono specifiche, reca con sé dei bisogni di varia natura. Ecco che allora, il compito di ogni docente diviene quello di dare semplicemente ad ogni alunno/a ciò di cui ha bisogno. Riletto in questa chiave, il bisogno educativo, più che speciale, appare specifico, individuale.

 

Perde di importanza il necessario riferimento ad una classificazione o suddivisione categoriale dei disturbi per mettere in atto la personalizzazione del processo d’insegnamento/apprendimento, cioè un adeguamento dell’insegnamento alle condizioni di apprendimento di ciascun alunno/a. L'inquadramento diagnostico e/o la precisa individuazione delle difficoltà, cadute e punti di forza del soggetto rimangono però ovviamente necessari per poter progettare al meglio il Piano Didattico Personalizzato.

 

L'alunno con D.S.A. è caratterizzato da una specificità e da alcune necessità, così come lo sarà il bambino/a adottato, con genitori che si stanno separando, di recente immigrazione etc...

 

Sappiamo bene quali siano le ricadute emotive e psicologiche di un D.S.A. o una qualche disabilità sull'autostima e senso di autoefficacia di un bambino/a. Vedere che nella classe, non è soltanto lui "con certificazione" ad usufruire delle misure compensative e dispensative di varia natura o a godere di speciali attenzioni,  contribuirà a evitare che si crei quell'alone di specialità negativa che spesso caratterizza questi bambini/e che, appunto, sono etichettati come aventi un disturbo.

 

L’ICF[2], la classificazione internazionale della salute, dell’essere umano e della disabilità, proponendo una lettura del funzionamento della persona in termini bio-psico-sociali, ci permette di integrare il modello medico e quello sociale[3].

 

Nell’ICF i termini di disabilità e handicap sono scomparsi per essere sostituiti da altri termini quali attività e partecipazione sociale.

 

Lo stato di salute è registrato attraverso i qualificatori, ovvero dei codici numerici, che specificano la gravità di una situazione e della disabilità in una categoria specifica, detta dominio, o attraverso il grado in cui un fattore ambientale rappresenta un facilitatore o una barriera. Il funzionamento di un individuo in un dominio specifico è letto come derivante dall'interazione dinamica o da una relazione complessa tra la condizione di salute e i fattori contestuali (ambientali e personali). Questi interagiscono con l'individuo in una condizione di salute e determinano il livello e il grado del suo funzionamento.  

 

I concetti di facilitatore e barriera permettono di descrivere la relazione tra la persona e l'ambiente circostante, e nel caso specifico dell’educazione, tra alunno e scuola. Come già accennato, sono il contesto e la società che determinano la connotazione in negativo o in positivo di una neurocaratteristica.

 

Proprio la centralità assegnata dall’ICF a fattori ambientali e personali, ha determinato la necessità di valutare bene la distinzione tra altri due concetti-base, quello di capacità e quello di performance.

 

La capacità è ciò che un individuo è in grado di compiere senza l’influenza esterna di fattori contestuali, qualunque sia la loro natura (ambientale e/o personale). Quello che, invece, l’individuo mette in atto sotto l’influenza dei fattori contestuali è la sua performance.

 

In un contesto scolastico, una performance supportata da facilitatori sarà costituita da un comportamento maggiormente funzionale, mentre una performance limitata da barriere avrà come risultato un comportamento meno funzionale.

 

I concetti e i principi che caratterizzano l’ICF divengono, in ambito educativo, le linee guida in materia di descrizione, di riflessione e discussione sul tema della disabilità.

 

La lettura della situazione di un bambino deve considerare e integrare le aree del funzionamento e della disabilità rispetto all’ambiente e al contesto educativo in cui è inserito.

 

Per tali motivi, l'ICF è considerato un valido strumento educativo, poiché permette di raccogliere informazioni utili sul funzionamento di un soggetto e di programmare consapevolmente e accuratamente programmazione delle azioni di intervento.

 

Un approccio di questo tipo richiede un intervento inclusivo il quale, come abbiamo visto nel documento dell’ICF, deve:

 

-          guardare alla globalità delle sfere educativa, sociale e politica

 

-          prendere in considerazione tutti gli alunni

 

-          intervenire prima sui contesti e poi sull’individuo

 

-          trasformare la risposta specialistica in ordinaria.

 

[1] Ianes D., Bisogni Educativi  Speciali e inclusione. Valutare le reali necessità e attivare tutte le risorse, Erickson, Trento 2005, p. 29

[2] Organizzazione Mondiale della Sanità, ICF. Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute, Erickson, Trento 2002

[3] Il modello medico vede la disabilità come un problema della persona, causato direttamente da malattie, traumi o altre condizioni di salute che necessita assistenza medica. La gestione della disabilità mira alla loro cura oppure all'adattamento ad esse da parte dell'individuo e a un cambiamento comportamentale. Il modello sociale vede la disabilità come un problema creato dalla società e il soggetto che ne è portatore non va gestito ma integrato mediante azioni sociali - cambiamenti ambientali, di atteggiamenti e ideologie - di cui tutta la collettività è responsabile. Ibidem, pag. 23.

#8

Progettare a scuola percorsi individualizzati ed altri personalizzati utilizzando le opportunità delle TIC

Partendo dalla constatazione della complessità e varietà che caratterizza la nostra società, la progettazione di percorsi individualizzati e personalizzati ci permette di tenere in grande considerazione le esigenze e specificità di ogni alunno/a, mettendo al centro la persona che apprende e non l’oggetto da apprendere.

Tale centralità è, quindi, una necessità che per attuarsi deve abbracciare alcune premesse essenziali: la considerazione della diversità come risorsa e non come disparità; il riconoscimento delle caratteristiche di personalità e temperamentali, degli stili di apprendimento e delle intelligenze multiple.  

Si parla pertanto di “Bisogni Educativi Speciali” che caratterizzano ogni alunno/a, non solo quello in condizione di handicap, e di “Progetto di vita” (anche nell’ottica del life long learning).   

 

L’educazione individualizzata si prefigge di far raggiungere a tutti gli alunni/e della classe obiettivi comuni, partendo da una puntuale analisi della situazione iniziale ed adattando il processo di insegnamento alle caratteristiche cognitive dell’intero sistema “classe”, nella sua globalità.

 

La personalizzazione, invece, utilizza strategie didattiche finalizzate a garantire ad ogni alunno/a percorsi ed attività elettive per potenziare i propri talenti e far emergere le eccellenze individuali nelle varie forme di intelligenza. Richiede una particolare attenzione a creare una offerta ricca e differenziata di stimoli, cosicché ogni alunno/a abbia la possibilità di scegliere e approfondire specifici percorsi personali, senza necessariamente dover ipotizzare percorsi separati. 

 

L’autonomia scolastica ci offre la possibilità di progettare attività e percorsi che tengano fortemente in considerazione i contesti e le caratteristiche della realtà scolastica ed applicare così le metodologie di insegnamento più adeguate. Le offerte formative e culturali del territorio potrebbero entrare a scuola, in orario scolastico sia extra scolastico, per permettere al bambino/a di coltivare attitudini e approfondire interessi nell’ottica di una didattica personalizzata. 

Il passaggio dai Programmi Ministeriali alle Indicazioni nazionali, inoltre, ci consente una flessibilità ed una libertà di intervento e progettazione curricolare assolutamente necessaria per rispondere alle esigenze dei nostri alunni/e.

 

L’approccio più adeguato per una educazione individualizzata è il “Mastery learning” (o apprendimento per padronanza) di Bloom. È una strategia didattica che prevede la strutturazione del percorso in Unità Didattiche significative che, tenendo in considerazione il più possibile lo stato di preparazione iniziale degli allievi/e, promuove progressivamente il raggiungimento delle abilità finali previste. Gli obiettivi educativi da far raggiungere al gruppo classe devono essere ben esplicitati, anche agli alunni/e stessi. Tali obiettivi, formulati in modo tale da rimandare direttamente a comportamenti osservabili, devono essere verificabili. Sono quindi delineati in modo molto chiaro e pratico, facendo riferimento alle abilità e competenze più che alle conoscenze (per esempio: “Sa risolvere un problema aritmetico” e non “Comprende la procedura per risolvere un problema aritmetico”). È necessario, inoltre, prevedere ed elaborare prove di verifica del raggiungimento del dominio delle competenze, ed attività integrative e di recupero qualora tale padronanza non sia stata raggiunta.

 

Per una didattica orientata alla personalizzazione, la strategia più valida è quella del “Progetto didattico”. Prevede una iniziale osservazione attenta degli interessi degli alunni/e – osservazione che deve proseguire durante l’intero svolgimento del PD – per poter individuare gli argomenti multidisciplinari da trattare e gli obiettivi generali da raggiungere. Si predisporranno così contesti stimolanti e si offriranno strumenti e materiali diversificati. Il luogo ideale è il laboratorio, verticale (tra alunni/e di diverse età) e orizzontale (tra alunni/e di diverse classi) che mirano all’implementazione delle abilità specifiche di ogni studente. L’aggregazione, quindi, di soggetti in base alle loro abilità o interessi rispetto alla tradizionale, e spesso poco proficua, aggregazione per età cronologica permetterà di lavorare mettendo veramente al centro del processo educativo la persona che apprende. Il docente deve porsi come sostegno (scaffolder) alle attività. È prevista una valutazione conclusiva che si potrebbe configurare come una riflessione comune e condivisa sulla esperienza effettuata.   

 

Sia nel caso di didattica individualizzata che personalizzata, l’utilizzo delle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione è validissimo se non necessario, dovendoci rivolgere ad un’utenza con una conoscenza e familiarità digitale nella maggior parte dei casi spiccata. Ci consente di progettare un nuovo formato per l’apprendimento che, per alcuni alunni/e, si dimostra più efficace, interessante, significativo e quindi maggiormente motivato, facendo leva su altri canali che caratterizzano intelligenze e stili di apprendimento diversi.

 

Avere a disposizione dei Computer e la LIM, preferibilmente montata nella propria aula per un utilizzo quotidiano e non sporadico, legato all’eccezionalità, apre la strada a utilizzi interessantissimi. I software didattici come quelli della Erickson (alcuni ottimizzati anche per l’impiego sulla LIM) o dell’Anastasis ci permettono di creare mappe, esercitarci su abilità di letto-scrittura o matematiche, acquisire o sedimentare conoscenze legate alle discipline in maniera ludica e accattivante.

Le ricerche su Internet e l’uso di programmi per il montaggio e produzione di presentazioni o filmati video rendono il soggetto che apprende attivo e partecipe, permettendogli di costruire operativamente la sua conoscenza.

 

Come mostrato, la libertà operativa offerta dall’Autonomia Scolastica da un lato, e l’esigenza di rispondere alle nuove e complesse esigenze della realtà scolastica e sociale dall’altro, hanno comportato per i docenti la necessità di interrogarci su modalità proficue per rispondere adeguatamente. È un compito a cui non possiamo sottrarci e sta a noi configurarlo come stimolante sfida professionale oltre che dovere deontologico.           

 

#7

D come disturbi, disabilità, difficoltà o differenza?

Quando si parla di Disturbi Specifici di Apprendimento - ma non solo - bisogna considerare che la tipologia delle informazioni diffuse può determinare una rappresentazione positiva o negativa di tale condizione, influenzandone quindi la qualità.

  

In Italia, per definire nello specifico la pluralità di disturbi che ormai vengono indicati con l'acronimo DSA, ci si riferisce alle Raccomandazioni per la pratica clinica definite tramite la Consensus Conference. Nelle linee guida, i DSA sono definiti «Disturbi che interessano specifici domini di abilità (lettura, ortografia, grafia e calcolo) in modo significativo ma circoscritto, lasciando intatto il funzionamento intellettivo generale».

 

In realtà, la lettera D dell'acronimo DSA, può assumere anche altri significati oltre a Disturbo, a seconda di ciò che vogliamo sottolineare.

 

Sicuramente il riferimento al disturbo - inteso come discrepanza dalla norma - è necessario per il clinico, nel caso della formulazione della diagnosi. Tale termine dovrebbe, quindi, essere utilizzato principalmente nel campo clinico e scientifico per facilitare la comunicazione tra tecnici, con riferimento ai manuali diagnostici DSM-V e ICD 10, e preferibilmente evitato in ambito pedagogico-didattico.

 

La dislessia e i Dsa, per definizione, sono delle disabilità specifiche dell'apprendimento. Se parliamo, quindi, di disabilità, ci riferiamo all'incapacità di stabilizzare una routine di azioni che non possono essere eseguite in modo veloce e accurato con il minimo dispendio energetico. In questo caso, il concetto di disabilità ci aiuta a definire cosa sono i DSA, passo necessario per un loro riconoscimento a livello burocratico. Ha quindi uno scopo di protezione sociale per rivendicare un diritto, al fine di facilitare l’attivazione di aiuti adeguati allo sviluppo (ad esempio, l’applicazione di strumenti didattici compensativi e dispensativi).

 

 Il riconoscimento dei DSA come disabilità, tuttavia, deve essere solo un passaggio per arrivare ad un momento in cui non ci sarà bisogno di etichette, ad una società - e quindi, una scuola - veramente inclusiva.

 

Ecco che allora la dislessia, disortografia, discalculia e disgrafia diventano solo delle difficoltà come tante altre, un aspetto di una persona che ha punti di forza e debolezza, caratteristiche e peculiarità. Dovremmo avere una visione ampia e non definire la persona solo attraverso questo aspetto.

 

È interessante sottolineare come, almeno in parte, la difficoltà è costruita socialmente, messa cioè in evidenza dalle richieste ambientali. Il sistema educativo italiano è ancora basato quasi esclusivamente sulla letto-scrittura. Se vivessimo in una cultura orale, per esempio, i DSA non si manifesterebbero. Va da sé che le difficoltà dei soggetti con DSA possono essere accentuate o attenuate dalle richieste scolastiche. Nella nostra realtà scolastica, infatti, la scrittura e la lettura rappresentano gli strumenti principali per la trasmissione delle conoscenze: i disturbi dell'apprendimento, quindi, non possono che incidere pesantemente sulla vita dello studente. 

 

I DSA, in sintesi, rientrano nelle differenze individuali, tipiche della neurodiversità umana. È il contesto sociale che determina se una neurodiversità è percepita come disabilità o meno. 

 

Nell'insorgenza di un D.S.A, quindi, pur tenendo sempre a mente il fattore di predisposizione - un deficit dei fattori innati che agiscono nei processi di apprendimento - è assodato come agisca l'ambiente, perché la consistenza del disturbo di apprendimento dipende anche da come questo disturbo impatta con l’ambiente. Se l’ambiente è ostile, ogni funzione ha maggiori difficoltà ad esplicarsi. Per esempio, se un individuo deve camminare per 100 metri per raggiungere una meta desiderata, lo sforzo che deve compiere dipenderà dalle caratteristiche della strada e dalle condizioni ambientali in cui si trova a percorrerla. Oltre ai fattori di predisposizione, quindi, i disturbi di apprendimento dipendono dalle condizioni ambientali: più l’ambiente scolastico è sfavorevole, più c’è la possibilità che le difficoltà aumentino.

 

Anche il documento d’intesa delle Raccomandazioni cliniche sui disturbi specifici di apprendimento del 2011 - in risposta a un quesito che domanda se nei DSA è più opportuno parlare di disturbi, disabilità o caratteristiche - tiene a precisare che: "Dislessia, Disortografia e Discalculia possono essere definite caratteristiche dell’individuo, fondate su una base neurobiologica; il termine caratteristica dovrebbe essere utilizzato dal clinico e dall’insegnante in ognuna delle possibili azioni (descrizione del funzionamento nelle diverse aree e organizzazione del piano di aiuti) che favoriscono lo sviluppo delle potenzialità individuali e, con esso, la Qualità della Vita. L’uso del termine caratteristica può favorire nell’individuo, nella sua famiglia e nella Comunità una rappresentazione non stigmatizzante del funzionamento delle persone con difficoltà di apprendimento; il termine caratteristica indirizza, inoltre, verso un approccio pedagogico che valorizza le differenze individuali".

 

Il termine caratteristica ha un’accezione più positiva rispetto al termine disturbo, indirizza verso un approccio pedagogico di valorizzazione delle differenze individuali e rafforza una rappresentazione positiva e non stigmatizzante delle persone con DSA.

 

Come sottolineato all'inizio dell'articolo, i termini utilizzati inducono determinati atteggiamenti e si traducono in comportamenti e norme. Adoperare una terminologia appropriata denota un atteggiamento volto all’inclusione che riflette un primo cambiamento culturale.

 

E' necessario, quindi, spostare l'attenzione dall'asse dei disturbi all'asse delle caratteristiche e dei bisogni di ogni bambino/a o ragazzo/a.

#6

Imparare e insegnare a leggere

Faccio parte ormai da diverso tempo del gruppo Facebook “La biblioteca di Filippo – Libri per Bambini". Il gruppo, nato dalla volontà di Federica, una mamma e blogger del sito "mammamogliedonna", si occupa – così come il sito – di promuovere l’importanza di leggere ai bambini/e fin dalla nascita (in realtà, anche prima!) e offre consigli di lettura, facilita lo scambio di opinioni su albi illustrati e letteratura infantile.

Nei vari post, spesso viene affrontato il delicato tema dell’insegnamento e/o acquisizione più o meno spontanea del processo di lettura da parte di bambini/e frequentanti la Scuola dell’Infanzia. Per tale motivo, mi è stato chiesto di approfondire alcune considerazioni su questi aspetti considerati interessanti da molte iscritte.

Comincio subito con il dire che io rientro tra coloro i quali ritengono sia molto utile insegnare (o aver acquisito) alcune abilità di base al fine di arrivare ad una corretta acquisizione del processo di lettura (inteso come capacità di riconoscere e decodificare segni grafici e riprodurli in una sequenza di suoni o in una immagine mentale). Altri, invece, pensano che la cosa migliore da fare sia insegnare a leggere direttamente, senza attuare percorsi propedeutici di tipo visuo-motorio o percettivo-discriminativo.

In realtà, la maggior parte degli specialisti ha notato come l’insegnamento diretto di alcune abilità specifiche e di base, che spesso vengono chiamate prerequisiti – specie in ambito scolastico – determina non soltanto un miglior apprendimento della lettura, ma può anche scongiurare o minimizzare l’insorgenza di difficoltà o di veri e propri disturbi specifici di apprendimento (D.S.A., quali la dislessia).

Gli studio delle neuroscienze, inoltre, hanno rilevato come imparare a leggere non faccia parte del nostro equipaggiamento genetico (a differenza dell’imparare a parlare) ma richieda una vera e propria riorganizzazione dei circuiti neuronali di alcune aree del cervello responsabili – tra i vari aspetti – dell’attenzione, percezione, motricità. Il corretto avviamento della lettura prevede, quindi, un lavoro preliminare a livello percettivo e di orientamento spazio-temporale.

Ma quali sono queste abilità di base, considerate propedeutiche e prodromiche alla lettura vera e propria?

 1)      Lettura di immagini. I bambini attivano, già in età prescolare, dei processi di “lettura spontanea” osservando le figure, commentandole ed elaborando un piccolo racconto che abbia già una coerenza logica e temporale.  

 2)      Discriminazione dei concetti topologici: grande/piccolo, alto/basso, sopra/sotto. Nel processo di scrittura e lettura i riferimenti spaziali sono necessari per poter collocare le lettere nella giusta direzione e leggerle secondo la direzionalità sinistra-destra che è propria del nostro codice linguistico.

 3)      Riconoscimento di forme. Imparare a leggere è possibile perché il nostro sistema visivo possiede già meccanismi per il riconoscimento delle forme invarianti e le giuste connessioni per collegare queste forme ad altre aree implicate nelle rappresentazioni uditive. Le lettere sono abbastanza vicine al repertorio di forme presente nel nostro cervello cosicché possiamo riferirle ai suoni (fonemi).  

 4)      Discriminazione di oggetti diversamente orientati nello spazio e acquisizione del concetto di specularità, al fine di evitare confusione tra lettere di forma identica ma invertite nello spazio (p/q, b/d),  

 5)      Capacità di procedere da destra a sinistra. Il bambino/a deve avere una buona direzionalità percettiva, sapendo controllare lo sguardo e i movimenti del capo. 

 6)      Buona lateralizzazione (o dominanza laterale). Dai 3 o 4 anni comincia a comparire una preferenza di lato, a livello dell’occhio, della mano e del piede dominanti. A 5-6 anni, il 30% circa dei bambini è mal lateralizzato (ma non necessariamente mostra delle difficoltà nella lettura o scrittura). È comunque preferibile lasciare libero il bambino/a di utilizzare la mano che più preferisce per svolgere via via un compito, ma dall’ultimo anno della Scuola dell’Infanzia è necessario favorire e incentivare l’uso della stessa mano per l’attività di scrittura.

Per avere ancor più chiaro come procede l’apprendimento della lettura, possiamo fare riferimento al modello proposto da Uta Frith, che mostra come i bambini/e arrivino all'automatizzazione dei processi di lettura. Secondo questo modello d'apprendimento, l'acquisizione della lettura avviene attraversano 4 fasi, ciascuna delle quali è caratterizzata dall'acquisizione di nuove procedure e dal consolidamento e automatizzazione delle competenze già acquisite.

 A.    Stadio logografico: coincide solitamente con l'età prescolare. Il bambino riconosce e legge alcune parole in modo globale, perché contengono delle lettere o degli elementi che ha imparato a riconoscere (essendo stato esposto ad essi più volte, nel corso del tempo).

 B.     Stadio alfabetico: il bambino impara a discriminare le varie lettere ed è in grado di operare la conversione grafema-fonema (via fonologica), potendo così leggere anche le parole mai viste prima.

 C.     Stadio ortografico: il meccanismo di conversione grafema-fonema si fa più complesso ed il bambino è ora capace di leggere suoni complessi (digrammi, trigrammi…).

 D.    Stadio lessicale: il bambino riconosce per accesso diretto le parole, avendo ormai sviluppato un “magazzino” lessicale che gli permette di leggere i vocaboli senza dover recuperare il fonema (suono) associato ad ogni grafema (simbolo o lettera) ma in maniera automatica e veloce. Farà ricorso alla via fonologica quando si troverà di fronte parole nuove e complesse, di cui non conosce il significato, o senza senso.

Abbiamo quindi inteso come l’apprendimento della lettura sia un processo formato da molti sottoprocessi integrati tra loro. L’inadeguatezza del metodo di insegnamento, del momento in cui viene proposta l’attività, nonché caratteristiche specifiche del bambino (immaturità cognitiva), possono essere da ostacolo all’automatizzazione di questo compito. Tutti questi parametri, quindi, vanno adeguatamente considerati, soprattutto nel momento in cui si sta valutando la possibilità di insegnare a leggere ad un bambino/a in età prescolare. 

 

#5

"L’officina della pedagogia"

Le ragioni del nome

Nella scelta del nome dello studio ho dovuto vagliare diverse possibilità. Sapevo bene cosa volevo che significasse ma, nonostante ciò, non è stato facile individuare quello giusto. Ho dovuto trovare un termine che non fosse già usato – almeno da pedagogisti di mia conoscenza – scartando, ahimè, alcuni nomi molto belli e calzanti. Un giusto compromesso, quindi, tra un nome che rappresentasse veramente le attività che offro nel mio studio di pedagogia, ma allo stesso tempo, un nome nuovo.

 

La scelta è ricaduta su “L’OFFICINA DELLA PEDAGOGIA”. Officina è contratto da opificina, che a sua volta deriva da opyfex: fex, che significare fare, produrre anche a scopo culturale, e opy, che significa “opera”. In sintesi, artefice di un’opera.

 

Il fare – con le mani, il corpo o la mente – rappresenta un aspetto importantissimo per lo sviluppo neuropsicomotorio del bambino e un canale fondamentale per l’apprendimento. Confucio disse: “Se ascolto dimentico, se vedo ricordo, se faccio capisco”. Questa è la frase che guida ogni mia scelta pedagogica, sia in studio che a scuola, mediante una didattica “agita”: contenuti e discipline apprese attraverso esperienze concrete, che vedono protagonista il corpo e la mente, attivando così il bambino/a nella sua globalità. Proprio una didattica attiva permette lo sviluppo di competenze e padronanza e, in classe, si rivela una metodologia inclusiva, valorizzando tutte le intelligenze e abilità degli alunni/e. L’esperienza concreta, la sperimentazione con il corpo, la produzione di un elaborato tangibile, rafforza e a volte anticipa la parte più teorica, facendola emergere o sedimentare.

 

L’imparare facendo attiva l’interesse e la motivazione del bambino/a, permettendo così una costruzione attiva delle conoscenze. La mia ricerca continua per la produzione di materiale didattico specializzato – compresi gli strumenti compensativi per i bambini con bisogni speciali – segue indicazioni pedagogiche ben precise, dagli spunti montessoriani alle più recenti ricerca inerenti i disturbi specifici di apprendimento. Facilitare l’apprendimento, rendendolo il più possibile piacevole, usando tutti i 5 sensi (talvolta sporcandosi le mani) è il mio obiettivo.

 

#4

Confessioni di un'insegnante pedagogista

Per qualcuno (fortunato!) è consequenziale laurearsi e mettersi subito a fare il lavoro per cui ha studiato e che ha scelto, o almeno dedicarsi affinché questo diventi una realtà.  

 

Nel mio caso, dopo la laurea (in realtà anche prima) un lavoro ha “scelto” me. È così che mi piace pensarla: per una serie di combinazioni e casualità, mi sono ritrovata a svolgere un impiego a cui non avevo mai pensato (altra bugia: a sei anni, con l’ingresso alla scuola elementare, giocavo a “fare la maestra”, già producevo i miei libri – le schede didattiche non usavano ancora – e davo voti e note ai miei pupazzi).

 

 

I primi incarichi giornalieri sono stati a dir poco scioccanti, messa di fronte all’irrequietezza e alla disubbidienza degli alunni che vedevano le ore con la supplente come l’occasione di far caos e tirar fuori il peggio.

 

Nonostante le chiamate alle 7.30 del mattino che ti chiedevano di arrivare il prima possibile alla scuola primaria “tal dei tali” di un altro Comune, spostandoti con i mezzi pubblici, non sapendo la classe né la materia da insegnare; nonostante gli esami dell’università ancora da preparare e, da laureta, la voglia di svolgere il lavoro per cui avevo studiato tanto (ma rinunciare a queste entrate economiche non era concepibile), ho sempre rispettato moltissimo questo ruolo (forse anche troppo, dato che questa riverenza mi fa talvolta arroccare e irrigidire su posizioni ormai passate di moda ed essere, quindi, una docente un po’ retrò). A mio avviso, è uno dei lavori più importanti: educare le nuove generazioni – perché non ci limitiamo ad “istruire” – comporta una responsabilità immensa, e questo mi è stato chiaro fin dalle prime supplenze.    

    

 

Arrivarono, finalmente, gli incarichi più lunghi: spesso come docente di sostegno a bambini/e con disabilità, su più classi, di frequente in due plessi, talvolta cambiati a metà anno scolastico… e finalmente ho iniziato a capire cosa volesse veramente dire “insegnare” arrivando così, ad apprezzare il mio lavoro. Con l’aumentare dei giorni di supplenza aumentarono anche le responsabilità e la mole di lavoro extra-scolastica: colloqui vari, progettazione delle attività, stesura di piani didattici personalizzati, scelta dei materiali da proporre…   

 

 

Il lavoro ha finito per “sottrarre” sempre più energie al mio obiettivo (e solo chi lo svolge come si deve sa quanto possa essere complesso e stancante): quello di aprire uno studio tutto mio come pedagogista, quello per cui mi sono tanto impegnata all’università, rifiutando i 28 e laureandomi a nemmeno 24 anni, lavorando già. Un lavoro che mi ha fatto contrarre malattie infantili alla soglia dell’adultità (varicella in primis) e scoprire batteri di cui ignoravo l’esistenza (streptococco mon amour); che mi ha fatto dimenticare come sia la mia voce “normale”, non rauca o affaticata; un lavoro che talvolta ha umiliato le mie competenze, grazie a genitori arroganti, colleghe che pensavano che il sostegno fosse a loro e non ai bambini o specialisti con una formazione simile alla mia che si son sentiti in diritto di dirmi cosa fare solo perché loro erano al di là di una scrivania.

 

 

Questo impiego, però, è stato per me una palestra pedagogica, didattica ed educativa assieme. Un training- che talvolta è sembrato più un tour de force che un semplice allenamento – che in dieci anni e più mi ha permesso di mettere in pratica le teorie studiate all’università, confrontandole con la complessa realtà della classe (che è ben diversa del rapporto uno-a-uno che hanno gli specialisti nei loro studi) dovendo “gestire” fino a 25 bambini/e per 5 ore di fila. Soprattutto negli ultimi anni – da quando sono stata assunta a tempo indeterminato – è stato anche emozionante, divertente, appagante: i bambini e le bambine sono portatori sani di affetto (se opportunamente educativi e indirizzati), hanno molte idee e ascoltarli e ridere con loro è davvero una fortuna.

 

 

Oggi, a quasi 13 anni dalla mia prima esperienza alla scuola dell’infanzia, sono definitivamente convinta che il rapporto quotidiano con una classe – intesa come gruppo eterogeneo di bambini e bambine portatori di una specifica identità – è un aspetto a cui farei davvero fatica a rinunciare.

 

Questo impiego mi ha reso ciò che sono: “maestra Martina” ma anche una pedagogista migliore di quella uscita dall’università nel 2005.  Ora, però, sento che è davvero arrivato il momento di riprendere in mano il mio sogno originario, di essere pronta ad offrire un servizio di qualità.

 

 

Ci sono state volte in cui il lavoro in classe è stato frustrante, perché come pedagogista sapevo che avrei dovuto operare in un certo modo, attuare uno specifico intervento di recupero ma i tempi, il programma, gli altri bambini da seguire non me l’hanno permesso. Proprio in questi momenti riemergeva ancor di più la mia necessità di poter lavorare individualmente con un bambino/a alla volta, dargli ciò di cui effettivamente aveva bisogno, seguire il suo percorso di maturazione da vicino.

 

Per me e per i bambini e le bambine che vorranno partecipare, quindi, apro “L’officina della pedagogia”, il mio studio di progettazione e consulenza pedagogica.

#3

Il Piano Didattico Personalizzato

Tra tutele del bambino e impegni della famiglia

La legge 170 del 2010 ha introdotto la categoria degli studenti con Disturbi Specifici di Apprendimento e ha avviato un processo di ridefinizione delle tipologie di alunni/e con modalità di apprendimento specifiche che è sfociato, nel 2012, con l’assunzione – anche in Italia – del costrutto di BES (Bisogni Educativi Speciali). Al suo interno confluiscono una pluralità di specificità: svantaggio socio-economico dello studente,  i disturbi dell’apprendimento, il disturbo da deficit di Attenzione/Iperattività ed altre situazioni di necessità dell’alunno/a.

 

 

Il D.M. del 12 luglio 2011, la successiva Direttiva del 27 dicembre 2012 e la circolare MIUR dell’8 marzo 2013 sanciscono le disposizioni inerenti gli studenti con DSA per ciò che concerne l’adozione di strumenti compensativi e misure dispensative.

 

 

L’articolo 4 del D.M. del 2011 richiama le Istituzioni scolastiche ad attuare i necessari interventi pedagogico-didattici, attivando percorsi di didattica individualizzata e personalizzata, assicurando l’impiego degli opportuni strumenti compensativi.

 

Il comma 5, invece, delinea la necessità di adottare misure dispensative, che si propongono di evitare situazioni di affaticamento e disagio in compiti direttamente coinvolti dal disturbo, senza peraltro ridurre il livello degli obiettivi di apprendimento.

 

L’articolo 6 precisa che la valutazione scolastica degli alunni/e con DSA deve essere coerente con gli interventi pedagogico-didattici delineati dal PDP. Le Istituzioni scolastiche devono adottare e applicare misure che determinino le condizioni ottimali per l’espletamento della prestazione da valutare - relativamente ai tempi di effettuazione e alle modalità di strutturazione delle prove – riservando particolare attenzione alla padronanza dei contenuti disciplinari, a prescindere dagli aspetti legati all’abilità deficitaria.

 

 

Sono varie, quindi, le disposizioni normative che delineano gli obblighi delle istituzioni scolastiche nei confronti di bambini/e con bisogni educativi speciali.

 

Non sono mancate sentenze e ordinanze che hanno deliberato in merito alla inefficace applicazione della direttiva MIUR sopracitata (assenza di accorgimenti didattici, carenza di individualizzazione dell’insegnamento, non applicazione del P.D.P.), annullando anche alcuni giudizi di non ammissione alla classe successiva.

 

 

Diverse sentenze ribadiscono più volte come la scuola debba elaborare e realizzare percorsi formativi personalizzati, che tengano conto delle esigenze e delle potenzialità di ciascun alunno; come la valutazione e la verifica degli apprendimenti – comprese quelle per l’esame conclusivo dei cicli – debbano tenere conto delle specifiche situazioni soggettive degli alunni/e con BES.

 

Chiunque abbia a cuore il benessere dei propri alunni/e e figli/e non può che concordare con quanto delineato dalla normativa in merito di DSA e BES e desiderare che si vigili sulla sua attuazione o – in caso contrario – si sanzioni la mancata applicazione della legge.

 

Da docente, però – forse qualcuno potrà pensare che io sia “di parte” – c’è un altro aspetto che mi sta altrettanto a cuore. Cosa compete alle famiglie? Nel momento in cui la famiglia firma il PDP, è per mera “presa visione” degli interventi che la scuola dovrà attuare nei confronti del figlio, o c’è dell’altro? Ovviamente tutti noi docenti sappiamo che c’è, o almeno ci dovrebbe essere, di più.

 

 

Nel PDP redatto dalla scuola in cui lavoro come docente (e referente DSA) c’è esplicitamente scritto che: SARA’ COMPITO DELLE INSEGNANTI A SCUOLA E DEI GENITORI A CASA, ASSICURARSI CHE L’ALUNNO UTILIZZI COSTANTEMENTE E NELLE MODALITA’ CORRETTE GLI STRUMENTI COMPENSATIVI delineati dal PDP.

 

La famiglia si impegna a seguire il figlio/a nel percorso di rinforzo delle abilità carenti; a sostenerlo nell’adozione degli strumenti compensativi (e ciò significa, soprattutto, imparare ad usarli, cosa non così semplice, basti pensare allo scrivere al pc usando la tastiera in modalità dattilografica); a controllare che il materiale utile (tabelle, mappe, testi riadattati etc) consegnato dai docenti sia sempre disponibile all’alunno/a, sia a scuola che a casa.

 

Chiunque lavori nella scuola, purtroppo, converrà con me che sempre più spesso si assiste ad una mancata attenzione e cura delle famiglie sul piano didattico stilato per il proprio figlio/a. Sembra non si abbia ben compreso che il PDP è il punto di partenza su cui lavorare e non un punto di arrivo o l’occasione per demandare alla scuola le iniziative da adottare per far sì che l’alunno/a prosegua il percorso scolastico senza troppa fatica e frustrazione. Lo dice la parola stessa: è un PIANO DIDATTICO, quindi un progetto personalizzato basato sui punti di forza e debolezza di quel bambino/a particolare, la cui attuazione effettiva si può avere soltanto se famiglia, scuola ed eventuali operatori specializzati che lavorano in rete, in sinergia.    

 

 

Per concludere, così come delineato dall’AID (corso “Dislessia Amica”), cosa compete alle famiglie in merito al PIANO DIDATTICO PERSONALIZZATO?

  • Consegnare la diagnosi in segreteria
  • Condividere le linee elaborate dai docenti nel P.D.P.
  • Sostenere la motivazione e l’impegno del bambino/a
  • Controllare il materiale scolastico richiesto
  • Verificare lo svolgimento dei compiti
  • Incoraggiare l’acquisizione dell’autonomia

 

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#2

Tra tradizione e innovazione

Classi digitiali ed esperienze multisensoriali

Le risorse della scuola pubblica, negli ultimi 10 anni, sono state via via tagliate. Uno dei pochi ambiti – se non l’unico – che si è salvato da questa decurtazione, è stato quella della didattica digitale. Si pensi, per esempio, alla recentissima istituzione, da parte della dibattuta legge 107, della nuova figura dell’“animatore digitale” e del Programma Operativo Nazionale per la scuola, con un’ampia sezione dedicata al potenziamento della dotazione tecnologica.    

 

Il percorso di digitalizzazione delle scuole è incominciato qualche anno fa con la cosiddetta LIM (Lavagna Interattiva Multimediale) da far pervenire, in teoria, in tutte le scuole italiane. L’obiettivo ambizioso era quello di creare le cosiddette “classi digitali”. A fianco a ovvie motivazioni didattiche-metodologiche, ce ne sono alcune di stampo più economico: l’investimento finanziario iniziale dovrebbe, in teoria, essere ammortizzato dalla sostituzione del cartaceo con un apparato didattico basato unicamente sugli schermi e sulle tastiere.

 

In realtà come sottolinea Daniele Novara – tale risparmio non esiste: la velocità con cui le tecnologie digitali cambiano necessita di un continuo aggiornamento e adeguamento, in termini sia di strutture che di software.

 

Mettendo da parte gli aspetti economici, per me poco rilevanti, rimangono alcuni nodi aperti.

 

Come molti studiosi di pedagogia hanno sottolineato, l’apprendimento deve avvenire in un contesto altamente denso di significato; deve quindi essere situato (Lave e Wenger) e partire dall’esperienza concreta del bambino. L’apprendimento significativo mette in relazione le nuove informazioni con le conoscenze che il soggetto già possiede (Novak).

 

A partire da Dewey e Piaget, viene anche sottolineato come l’apprendimento efficace debba essere esperienziale: il processo di apprendimento si realizza, così, attraverso l'azione e la sperimentazione di situazioni, compiti, ruoli in cui il soggetto è attivo protagonista.

 

Per usare le parole di Confucio: “Se ascolto dimentico, se vedo ricordo, se faccio capisco”. 

 

La pedagogia della Montessori racchiude in sé e delinea perfettamente i paradigmi di una didattica del fare: apprendimento in contesti di esperienza diretta dove tutta la sensorialità viene sviluppata attraverso processi di libera scelta e di forte sviluppo delle creatività personali, partendo da problemi concreti.

 

Alla luce di queste considerazioni, siamo sicuri che la virtualizzazione crescente a cui si stanno in parte sottoponendo i bambini – tramite l’uso di tablet, Lim e quant’altro, fin dai primissimi anni di vita – risponda realmente ai loro bisogni educativi?

 

È interessante notare come i fondatori dei grandi sistemi di connessione digitale – l’ideatore di Google, l’inventore di Amazon, il creatore di Wikipedia – provengano proprio dalle scuole montessoriane, dove il primato è totalmente della sensorialità pura e semplice, del toccare, del vedere, del sentire, dell’esperienza diretta.

 

Sembra quasi, come sottolinea Novara, che “per arrivare ad essere dei geni creativi del nuovo mondo digitale bisogna aver trascorso l’infanzia fuori dal mondo digitale”.

 

Basta osservare qualsiasi bambino “nativo digitale”: spesso digitalmente abilissimo in un videogioco ma con capacità logico-deduttive (necessarie alla programmazione digitale) non altrettanto sviluppate.

 

Molte delle ricerche più recenti sottolineano come la sostituzione del digitale, a scapito delle più tradizionali modalità di apprendimento, non sia del tutto corretta.

 

Una serie di studi, sviluppati in Francia, Inghilterra e Stati Uniti, convergono sul fatto che la scrittura a mano permetta un coordinamento di motricità fine, con componenti neurofisiologiche assolutamente uniche, che la tastiera non è in grado di garantire. La scrittura con la penna, quindi, consente un apprendimento e uno sviluppo delle capacità migliori rispetto alla tastiera.

 

Altre ricerche mostrano come nei bambini di cinque anni i circuiti cerebrali dedicati alla lettura si attivano quando provano a scrivere lettere a mano, ma non quando premono i corrispondenti tasti su una tastiera.

 

Queste ricerche, quindi, sembrano convalidare le affermazioni della Montessori: in età infantile l’apprendimento è sempre connesso a esperienze tattili e sensoriali e ad operazioni concrete.

 

Tali argomentazioni, ovviamente, non ci devono far rigettare in toto la possibilità di una “scuola digitale” ma portarci a ben delineare quali siano le linee guida che devono orientare il processo di digitalizzazione: sostituzione del nozionismo contenutistico e mnemonico (ben vengano i libri digitali, quindi) a favore di una rinnovata funzione educativa della scuola come luogo di socializzazione, scambio, confronto, costruzione condivisa della conoscenza.

 

Proprio di socializzazione reale e quotidiana, i giovani hanno davvero bisogno. Che i social network non siano strumenti relazionali efficaci, dal punto di vista dell’acquisizione di competenze relazionali, ormai è chiaro a tutti. E molto più tempo si passa nelle relazioni virtuali, meno si impara a gestire le normali difficoltà relazionali e comunicative quotidiane.

 

Proprio qui, la scuola gioca un ruolo fondamentale: intervenire, ovviamente, sullo sviluppo dell’intelligenza cognitiva senza dimenticare l’intelligenza emotiva, altrettanto importante nella globale formazione dell’individuo.  

 

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