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Confessioni di un'insegnante pedagogista

Per qualcuno (fortunato!) è consequenziale laurearsi e mettersi subito a fare il lavoro per cui ha studiato e che ha scelto, o almeno dedicarsi affinché questo diventi una realtà.  

 

Nel mio caso, dopo la laurea (in realtà anche prima) un lavoro ha “scelto” me. È così che mi piace pensarla: per una serie di combinazioni e casualità, mi sono ritrovata a svolgere un impiego a cui non avevo mai pensato (altra bugia: a sei anni, con l’ingresso alla scuola elementare, giocavo a “fare la maestra”, già producevo i miei libri – le schede didattiche non usavano ancora – e davo voti e note ai miei pupazzi).

 

 

I primi incarichi giornalieri sono stati a dir poco scioccanti, messa di fronte all’irrequietezza e alla disubbidienza degli alunni che vedevano le ore con la supplente come l’occasione di far caos e tirar fuori il peggio.

 

Nonostante le chiamate alle 7.30 del mattino che ti chiedevano di arrivare il prima possibile alla scuola primaria “tal dei tali” di un altro Comune, spostandoti con i mezzi pubblici, non sapendo la classe né la materia da insegnare; nonostante gli esami dell’università ancora da preparare e, da laureta, la voglia di svolgere il lavoro per cui avevo studiato tanto (ma rinunciare a queste entrate economiche non era concepibile), ho sempre rispettato moltissimo questo ruolo (forse anche troppo, dato che questa riverenza mi fa talvolta arroccare e irrigidire su posizioni ormai passate di moda ed essere, quindi, una docente un po’ retrò). A mio avviso, è uno dei lavori più importanti: educare le nuove generazioni – perché non ci limitiamo ad “istruire” – comporta una responsabilità immensa, e questo mi è stato chiaro fin dalle prime supplenze.    

    

 

Arrivarono, finalmente, gli incarichi più lunghi: spesso come docente di sostegno a bambini/e con disabilità, su più classi, di frequente in due plessi, talvolta cambiati a metà anno scolastico… e finalmente ho iniziato a capire cosa volesse veramente dire “insegnare” arrivando così, ad apprezzare il mio lavoro. Con l’aumentare dei giorni di supplenza aumentarono anche le responsabilità e la mole di lavoro extra-scolastica: colloqui vari, progettazione delle attività, stesura di piani didattici personalizzati, scelta dei materiali da proporre…   

 

 

Il lavoro ha finito per “sottrarre” sempre più energie al mio obiettivo (e solo chi lo svolge come si deve sa quanto possa essere complesso e stancante): quello di aprire uno studio tutto mio come pedagogista, quello per cui mi sono tanto impegnata all’università, rifiutando i 28 e laureandomi a nemmeno 24 anni, lavorando già. Un lavoro che mi ha fatto contrarre malattie infantili alla soglia dell’adultità (varicella in primis) e scoprire batteri di cui ignoravo l’esistenza (streptococco mon amour); che mi ha fatto dimenticare come sia la mia voce “normale”, non rauca o affaticata; un lavoro che talvolta ha umiliato le mie competenze, grazie a genitori arroganti, colleghe che pensavano che il sostegno fosse a loro e non ai bambini o specialisti con una formazione simile alla mia che si son sentiti in diritto di dirmi cosa fare solo perché loro erano al di là di una scrivania.

 

 

Questo impiego, però, è stato per me una palestra pedagogica, didattica ed educativa assieme. Un training- che talvolta è sembrato più un tour de force che un semplice allenamento – che in dieci anni e più mi ha permesso di mettere in pratica le teorie studiate all’università, confrontandole con la complessa realtà della classe (che è ben diversa del rapporto uno-a-uno che hanno gli specialisti nei loro studi) dovendo “gestire” fino a 25 bambini/e per 5 ore di fila. Soprattutto negli ultimi anni – da quando sono stata assunta a tempo indeterminato – è stato anche emozionante, divertente, appagante: i bambini e le bambine sono portatori sani di affetto (se opportunamente educativi e indirizzati), hanno molte idee e ascoltarli e ridere con loro è davvero una fortuna.

 

 

Oggi, a quasi 13 anni dalla mia prima esperienza alla scuola dell’infanzia, sono definitivamente convinta che il rapporto quotidiano con una classe – intesa come gruppo eterogeneo di bambini e bambine portatori di una specifica identità – è un aspetto a cui farei davvero fatica a rinunciare.

 

Questo impiego mi ha reso ciò che sono: “maestra Martina” ma anche una pedagogista migliore di quella uscita dall’università nel 2005.  Ora, però, sento che è davvero arrivato il momento di riprendere in mano il mio sogno originario, di essere pronta ad offrire un servizio di qualità.

 

 

Ci sono state volte in cui il lavoro in classe è stato frustrante, perché come pedagogista sapevo che avrei dovuto operare in un certo modo, attuare uno specifico intervento di recupero ma i tempi, il programma, gli altri bambini da seguire non me l’hanno permesso. Proprio in questi momenti riemergeva ancor di più la mia necessità di poter lavorare individualmente con un bambino/a alla volta, dargli ciò di cui effettivamente aveva bisogno, seguire il suo percorso di maturazione da vicino.

 

Per me e per i bambini e le bambine che vorranno partecipare, quindi, apro “L’officina della pedagogia”, il mio studio di progettazione e consulenza pedagogica.